Ci sono ricaduta, lo so.
Però, se non altro, il sito è stato aggiornato e spero che abbia fatto passare inosservata, o quasi, la mia latitanza.
A che serve avere un blog se poi ci scrivi un paio di volte l’anno, che tutto vada bene? Mi direte.
Beh, amici, avessi solo questo di cui occuparmi… Ma non voglio tediarvi con le solite manfrine. Voglio parlarvi di libri. I miei, quelli che finora non erano elencati nel sito perché scritti sotto pseudonimo straniero. Di altri, più in generale. Ma soprattutto di un bellissimo romanzo che ho riscoperto di recente. Capita, ogni tanto, di chiudere un libro che mi è piaciuto da morire con l’intenzione di rileggerlo, magari più avanti. Qualcuno mi ha trasmesso sensazioni così forti che lascio passare pochissimo tempo prima di rileggerlo. Per alcuni ne trascorre di più, ma solo perché ci sono storie nuove che richiamano la mia attenzione. Mi attraggono come il canto delle sirene.
Il romanzo in questione s’intitola: Padiglioni Lontani e l’autrice è M.M. Kaye. Una signora inglese che ha condotto un’esistenza avventurosa almeno quanto quella dei protagonisti della storia da lei scritta. Una vicenda straordinaria, appassionante, indimenticabile.
Più volte mi ero ripromessa di rileggerlo. Ne ricordavo con nostalgia certi passaggi particolarmente suggestivi… Ma sempre per qualche motivo non ci riuscivo. E poi ho scoperto che il libro in questione era scomparso… Un dramma, potete ben immaginarlo. Inutile ogni ricerca. E questo tarlo nella mente che non mi dava tregua. Ho continuato a pensare al libro e a rimpiangerne la perdita per giorni, settimane… Poi, un mattino, gironzolando al mercato come capita spesso, vedo una bancarella di libri usati. Mi avvicino e che ti vedo esposto in prima fila? Ma sì, proprio il libro perduto! Detto, fatto. Non si può ignorare un segno del destino. Lo compro e me lo porto a casa trionfante, impaziente di cominciare a leggerlo. Così, ho messo da parte gli altri ( sì, ne leggo anche due o tre alla volta) per dedicare tutta la mia attenzione al romanzo che mi aveva fatto sognare e che, giunta ormai alla trecentesima pagina, mi fa sognare tuttora. È molto lungo. Sono poco meno di novecento pagine, ma se vi piacciono le storie ad ampio respiro come Via col Vento, o Shogun, oppure ancora Uccelli di rovo, anche questo vi catturerà, imprigionandovi nella sua rete di magia. E allora respirerete i profumi dell’India, le intense fragranze di una terra ricca di fascino, sarete trasportati sulle più alte vette dell’Himalaya e nei fastosi palazzi dei Maharaja, nelle aride, polverose pianure, nelle giungle e sulle rive dei grandi fiumi. Ammirerete, attraverso le parole dell’autrice, paesaggi fiabeschi e colori rutilanti, conoscerete usanze e una pletora di nomi strani, curiosi, spesso impronunciabili. Sarà un viaggio che desidererete non abbia mai fine. E sarete coinvolti in una grande storia d’amore fra una principessa indù e un giovane ufficiale inglese. Romantico, vero?
Lo consiglio, ammesso che abbiate la fortuna di trovarlo com’è capitato a me. E se per caso qualcuno lo conosce e ne vuole parlare… mi farà un gran piacere. Ormai è raro riuscire a leggere romanzi di standard così elevato. È così straordinariamente bello che riesce a far sembrare insulse tutte le altre storie. Con qualche eccezione. Poche, però, almeno per una lettrice o un lettore esigente.
Un altro romanzo stupendo è di Ken Follett: I Pilastri della Terra.
Pure questo rivisitato recentemente e ulteriormente apprezzato. Non solo perché sono appassionata di Medioevo e amo l’atmosfera di quel periodo storico, ma perché l’autore riesce a trasmettere con maestria le emozioni e i sentimenti dei protagonisti, a far rivivere la quotidianità e l’asprezza della vita di gente comune che si confronta coi potenti, ma anche le sublimi aspirazioni di un umile maestro d’opera che sogna di costruire una cattedrale così grande e bella che celebri degnamente la gloria di Dio. Anche qui ritroviamo una storia d’amore tra due giovani, ma la struttura portante dell’intero romanzo è la passione di Tom, il costruttore. Una passione terrena e tuttavia capace di trascendere la materia per lanciarsi verso il cielo e trasformare le guglie di una cattedrale in un tramite col divino.
Prima ho citato Via col vento, che annovero tra i miei preferiti, e anche l’intramontabile Uccelli di rovo, della cui autrice ho praticamente letto tutto, inclusi i romanzi del ciclo dedicato alla Roma di Giulio Cesare. Ma per Shogun, di James Clavell, ho una predilezione particolare.
In questo romanzo, ambientato nel Giappone del XVII secolo, fra samurai, ninja, lotte e intrighi di potere, si innesta la vicenda di Blackthorne, pilota di una nave olandese naufragata sulle coste giapponesi, nel contesto di una trama complessa, ricca di personaggi e colpi di scena. Di forti contrasti tra il raffinato e tuttavia crudele mondo dei potenti feudatari, gelosamente conservatori, e gli europei, preti gesuiti venuti a evangelizzare, pirati attratti da mirabolanti ricchezze, rozzi capitani e avide ciurme.
A quel tempo le rotte della navigazione erano ancora piuttosto imprecise. Poteva accadere di trovarsi in Giappone, invece che in Cina, e perciò grande importanza rivestivano i portolani, libri su cui venivano trascritte le rotte da seguire, e i piloti, che ne conoscevano i segreti. Blackthorne si rivelerà, attraverso lo sviluppo della storia, una pedina fondamentale per gli ambiziosi progetti dello Shogun, che mira a creare una flotta capace di competere con le navi occidentali per sviluppare un commercio indipendente, ma che sia anche una forza d’invasione.
Per Blackthorne, quel mondo è dapprima incomprensibile ma, col tempo, il contatto con una società complessa e densa di sfumature che conosce profondamente l’animo umano, provocherà in lui un radicale cambiamento. E l’amore della bellissima Mariko lo legherà per sempre.
Adoro questo romanzo, e non ho difficoltà ad ammettere di averne tratto ispirazione per “Mikado”, scritto ormai parecchi anni fa. Mi piacerebbe scriverne un altro, perché il Giappone feudale del periodo Tokugawa esercita un grande fascino sulla mia immaginazione. Rientra nei miei progetti futuri, sempre che il tempo tiranno mi conceda di realizzarlo.
Ma adesso torniamo in Europa per parlare di un classico: Il ritratto di Dorian Gray, di Oscar Wilde. Letto la prima volta molti anni fa e riscoperto quest’inverno. È un capolavoro, senza dubbio. L’apoteosi della bellezza. La civiltà dell’immagine così incredibilmente moderna, oggi che si è protesi in una ricerca estenuante di perfezione fisica. Una ricerca che nasconde le insidie della superficialità, dell’apparire piuttosto che dell’essere, che rende schiavi di un sortilegio narcisistico che porta alla perdizione.
Dorian Gray rappresenta in modo straordinario il desiderio di ciascuno di noi di incarnarsi nell’ideale della bellezza incontaminata dal trascorrere del tempo. È il suo ritratto che invecchia e si corrompe, rivelando le turpitudini del suo animo, la malvagità delle sue azioni. Egli passa indenne attraverso gli anni, i delitti, i vizi, e le persone che frequenta non credono alle voci inquietanti che circolano su di lui, alla fama sinistra che gli aleggia intorno, perché quel viso eternamente giovane, bello e puro non può appartenere ad un essere diabolico. Ecco l’inganno di cui Dorian è prigioniero. Il prodigio malsano che lo incatena e lo trascina in un vortice di follia da cui potrà affrancarsi solo con la morte.
E qui concludo, perché ogni ulteriore aggiunta sarebbe un’appendice inutile.
A presto.
( Dei miei libri vi parlerò un’altra volta.)