Lame d’acciaio, lame di luce, simboli di cavalieri di ogni tempo e universo.
Il sibilo di una spada estratta dal fodero echeggia nel silenzio della foresta… L’inizio dell’avventura.
Credo che niente come una spada scintillante che cattura la luce e risplende sia motivo di fascino e suggestione, evochi scenari grandiosi ed epiche imprese.
D’altronde la Storia, almeno fino a pochi secoli fa, è stata foggiata a colpi di spada.
Fu con un portentoso fendente che Alessandro il Macedone recise il Nodo di Gordio e divenne l’artefice del proprio destino. Il suo gesto diventò il simbolo di coloro che affrontano i nodi gordiani della vita con tenacia e determinazione.
A colpi di spada, o meglio di gladio, Roma conquistò un impero e dominò, praticamente incontrastata, per circa un millennio.
La spada, quindi, fu simbolo di forza e di potere. L’arma per eccellenza nel combattimento corpo a corpo.
Tuttavia fu dopo la caduta dell’impero romano che la spada, da semplice arma di difesa e attacco, diventò qualcosa di diverso, qualcosa di più…
Doveva cambiare il modo di combattere e, soprattutto, doveva avvenire un cambiamento nel guerriero che impugnava la spada. Ciò fu reso possibile dalla creazione di un nuovo genere di cavalleria e di un nuovo tipo di cavaliere. Infatti non basta essere un guerriero a cavallo per essere un cavaliere.
I popoli delle steppe erano insuperabili nel combattimento a cavallo. In sella ai loro destrieri essi trascorrevano la maggior parte della vita; vi mangiavano e vi dormivano, oltre che combattere.
Fu per questa loro abitudine che coloro che li videro per la prima volta li scambiarono per centauri.
Tuttavia non erano cavalieri.
L’immagine del cavaliere venne portata sulla scena della Storia da goti, vandali, franchi e longobardi, popoli che come ausiliari avevano costituito la cavalleria dell’esercito romano, ma si trattava soltanto della figura e non ancora dell’idea del cavaliere.
Oltre a essere una temibile macchina da guerra, questo guerriero era tale in quanto legato e condizionato da rigide regole che non poteva infrangere senza incorrere nel disonore e nella vergogna. Questo guerriero che emerge dalle brume del passato è rozzo, violento, brutale. Vincolato da un paganesimo ormai crepuscolare e da una totale devozione al suo signore, colui al quale deve l’investitura delle armi, al punto da doverlo seguire fin nella tomba, qualora fosse caduto in battaglia.
Il cambiamento decisivo avviene nel momento in cui ha luogo la conversione al cristianesimo, che amplia e perfeziona il ruolo del guerriero a cavallo facendone un cavaliere attraverso forme di iniziazione che conferiscono al suo stato un accredito ideale oltre che istituzionale. Sono le regole che impone il rituale ecclesiastico ed è qui che il cavaliere cessa di essere strumento del signore e diviene strumento di un’idea. I valori a cui deve sottostare il cavaliere mutano in ragione di questa idea e di una fede luminosa, che vanno a sostituire la cieca fedeltà al signore. La fede in una causa che sfugge, proprio per la sua grandezza, a ogni parametro terreno. Il cavaliere barbarico di un tempo, la cui ferocia è temperata dalla rivelazione evangelica, diventa milite della solidarietà e della speranza, sebbene sia condizionato dalla rigida ipoteca dell’investitura ecclesiastica.
Il Pontificale Romano non dà adito a dubbi in tal senso: la benedizione della spada del cavaliere deve essere impartita in modo che non danneggi ingiustamente alcuno e si faccia difensore di quanto vi è di giusto e di retto. Ancora più specifico il Pontificale di Sant’Alano di Magonza, nel quale è previsto che la benedizione venga impartita alla spada affinché essa si elevi a difesa delle chiese, delle vedove, degli orfani e di tutti i servi di Dio contro il flagello dei pagani.
La spada, ora, non è più semplicemente un’arma, ma è lo strumento per la difesa della fede cristiana, e il cavaliere assurge al ruolo di braccio armato della Chiesa. L’alone mistico e iniziatico di cui è ammantato il cavaliere pone le basi della moderna società occidentale. Sono le spade dei paladini; la Durendal di Orlando, l’Altachiara di Olivieri, la Murgleis di Gano, a squarciare il sipario dei secoli oscuri e a rischiarare di luce sfolgorante il futuro dell’Occidente.
Brillano gli speroni e le armature, sventolano gli stendardi e le insegne, e fra il rullo dei tamburi e lo squillo delle trombe avanzano le schiere dei cavalieri, eletti a difensori dei deboli e degli oppressi, pronti a serrarsi in ranghi compatti e a lanciarsi in battaglia, a giostrare nei tornei per il sorriso di una donzella, oppure a cavalcare, solitari, incontro a perigliose avventure.
È quest’ultima immagine, la più suggestiva, che ci hanno tramandato i poeti e i trovatori, che incontriamo in numerosi romanzi epici, a sfondo storico o decisamente fantastico. È l’avventura vissuta come “avvento e avvenimento”, il percorso iniziatico verso un superiore livello di conoscenza che il cavaliere potrà raggiungere attraverso prove e difficoltà. È l’avventura dello spirito che conduce alla crescita interiore. È il cammino di una ricerca, come quella del calice del sacro Graal intrapresa da Parsifal. Durante il corso di questo cammino il cavaliere dovrà confrontarsi con due ordini di Misteri che gli saranno a poco a poco rivelati. Ogni passo, ogni prova superata lo avvicina alla meta. Le prove fisiche, quelle connesse all’esercizio dell’azione e in cui deve dimostrare il proprio coraggio, riguardano i Piccoli Misteri, per svelare i quali basta l’investitura a cavaliere. I Grandi Misteri, invece, riguardano lo spirito e la pratica della contemplazione, la conoscenza superiore raggiungibile solo con un più elevato stato di coscienza. È l’ultimo passaggio iniziatico attraverso il quale si compie il destino del cavaliere: è il conseguimento della perfezione. Vi è un posto vuoto alla tavola di re Artù, alla sua destra, tenuto in serbo per quel cavaliere che eccellerà sopra tutti per doti spirituali, oltre che per il valore dimostrato sul campo.
È la perfezione, dunque, che ricerca il cavaliere.
Prode senza superbia, casto e devoto, incapace di proferire parole calunniose e di prestarvi orecchio, votato a compiere nobili imprese, non per conquistare glorie personali, ma per servire meglio Dio e il suo sovrano.
Parole che evocano quelle di San Bernardo, abate di Clairvaux, nel suo Elogio alla Nuova Cavalleria.
E per “nuova cavalleria” s’intende l’Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone, più conosciuti come templari, il cui ruolo in Terrasanta nel periodo delle crociate fu di grande importanza, così grande che forse, senza di essi, il Regno Latino d’Oltremare sarebbe caduto molto prima.
Agli occhi di San Bernardo, e probabilmente nelle intenzioni di Ugo di Payns, il fondatore e primo gran maestro dell’ordine, i cavalieri dovevano incarnare e rappresentare i valori più puri ed elevati della cavalleria. Povertà, castità e obbedienza erano i tre voti che dovevano pronunciare i cavalieri, che singolarmente non possedevano alcunché; né le armi, le vesti e i cavalli, che alla loro morte tornavano al Tempio. Cita la regola dell’ordine stilata da San Bernardo: “i templari non hanno nulla di proprio, nemmeno la volontà, poiché l’unica loro preoccupazione è di armare di fede lo spirito e di ferro il corpo”.
Poveri lo erano certamente, i primi templari a cui fu assegnata come sede una parte dei sotterranei dell’antico e in rovina tempio di Salomone dal re di Gerusalemme Baldovino. Poveri al punto, si dice, da cavalcare in coppia lo stesso cavallo, come mostra l’immagine riprodotta su uno dei sigilli dell’ordine. Ma come conciliare questa proclamata povertà con l’enorme ricchezza che venne accumulata dall’ordine col procedere degli anni e l’accrescersi della sua fama? È semplice se si pensa che le spese per il mantenimento delle truppe di stanza in Oltremare erano ingenti. I templari, come più tardi ospitalieri e teutonici, non andavano e venivano come gli altri cavalieri crociati. Quella che essi combattevano era una crociata permanente, in funzione del loro ruolo di difensori dei pellegrini e dei luoghi Santi, perciò necessitavano di un vero e proprio flusso continuo di denaro per finanziare il loro mantenimento. Piazzeforti, uomini, armamenti, cavalli e navi che facevano la spola fra l’Oltremare e l’Europa, richiedevano capitali considerevoli, che una oculata e attenta amministrazione accresceva al punto da renderli i primi finanziatori dei potentati europei, inclusi i sovrani. A quel tempo, se si voleva affidare a mani sicure il proprio denaro, lo si dava al Tempio, garante di ogni transazione d’affari e anche del trasferimento di grossi capitali da un paese all’altro.
Banchieri, dunque, oltre che temibili combattenti. Ma anche abili diplomatici e uomini dalla mentalità aperta, disposti al confronto e alla comprensione. Così radicati nella realtà orientale da intrecciare veri e propri scambi culturali con l’Islam, che pure combattevano. Perché, se è vero che i templari erano degli iniziati, non potevano ignorare l’esistenza di altri iniziati nelle file del nemico.
In Oltremare esistevano dei circoli iniziatici con i quali i templari entrarono in contatto; i sufi, per esempio, o i dervisci, ma in special modo gli ismailiti dello Shayk al Jabal, il leggendario Vecchio della Montagna, con i quali sussistevano particolari affinità filosofiche e organizzative nei quadri gerarchici.
Tuttavia, nonostante le affinità e gli stretti rapporti che derivavano da questi scambi culturali, i templari non furono mai indotti a cedimenti o compromessi sul campo di battaglia. La macchina da guerra del Tempio non venne mai meno al proprio ruolo, che imponeva a ciascun cavaliere una ferrea disciplina e una spietata fermezza di fronte al nemico.
Fino all’ultimo, finché anche l’estremo baluardo di San Giovanni d’Acri crollò sotto l’impeto dell’esercito musulmano e pose fine al Regno Latino d’Oltremare, i templari rimasero saldamente fedeli ai loro principi e si sacrificarono per fare in modo che le navi con a bordo civili, donne, vecchi e bambini avessero il tempo di salpare e portarli in salvo.
Era l’anno del Signore 1291.
Quello fu l’anno che non solo decretò la fine delle crociate, anche se in seguito si tentò senza successo di riconquistare la Terrasanta, ma segnò l’inizio del declino e della fine dei templari, a cui venne a mancare la principale ragion d’essere.
Appena undici anni dopo, nel 1307, Filippo il Bello, re di Francia indebitato con l’ordine deciso a risolvere la questione a modo suo, ne organizzò e decretò l’arresto. La cavalleria eletta, la cavalleria di Dio che si lanciava in battaglia al grido: “Non per la mia gloria, o Signore, ma per la Tua!”, conobbe il suo momento più tragico.
Tuttavia fu in quel momento che i templari uscirono dalla Storia per entrare, circonfusi di luce, nella leggenda e divenire immortali.
La loro fine così tragica e ingiusta segnò anche la fine di un’epoca. Già si avvertivano nell’aria i primi segnali dell’avvento di una nuova era, i fermenti che avrebbero portato al tramonto dell’età feudale e al sorgere del Rinascimento, ma il crepuscolo della cavalleria è ancora lontano e anche quando avverrà, dopo svariati mutamenti dovuti al progresso, lascerà un’impronta profonda e incancellabile, poiché i valori che essa esprime sono eterni. Il trascorrere dei secoli non li ha resi desueti, soltanto disattesi, ed è per questo che il bisogno di ritrovare questi valori è fortemente sentito nella società contemporanea, poiché nel loro insieme esprimono generosità e altruismo.
Il perdurare di questi ideali è dimostrato dal successo dei romanzi storici d’ambientazione medievale, dei romanzi fantasy, dove cavalieri, maghi e principesse combattono per il trionfo del Bene e in cui si ritrovano valori universali e intramontabili come la lealtà, l’amicizia, il coraggio e la generosità. “Il Signore degli Anelli” è senza dubbio l’esempio meglio riuscito e di successo di questo genere di narrativa, un capolavoro finora ineguagliato, sebbene imitato da molti autori.
Sono valori che ritroviamo anche nella fantascienza epico-avventurosa della Saga di Guerre Stellari, dove i cavalieri Jedi non sono soltanto difensori del bene, ma anche degli iniziati e rifiutano le armi convenzionali per servirsi di spade tecnologicamente avanzate, ma pur sempre spade. È la spada, simbolo del cavaliere che fa la differenza, che segna il confine fra coloro che sono iniziati ai Misteri e coloro che non lo sono. E sebbene anche il Lato Oscuro sia un percorso iniziatico seguito dai Signori dei Sith, esso è finalizzato al conseguimento del potere fine a se stesso e persegue la causa del male. Il cavaliere Jedi preferisce morire piuttosto che lasciarsi sedurre dal Lato Oscuro, così come il cavaliere del medioevo preferiva la morte che venire meno ai propri principi.
Alcuni versi di Alfred Tennyson, tratti dal poema Gli Idilli del Re, evocano in modo struggente il profondo significato della cavalleria.
Artù, morente, pronuncia queste parole:
Quando i romani ci lasciarono e la loro legge allentò su di noi le sue redini, e le vie erano piene di rapine, qua e là un’azione di valore raddrizzava un torto casuale. Ma io fui il primo. Io fui il primo di tutti i re a riunire cavalieri erranti di questo e d’altri regni. Fui il loro capo in quel bell’Ordine della Tavola Rotonda, gloriosa compagnia, stupendo inizio di un’epoca nuova. Feci loro porre la mano nella mia e giurare di onorare il re, come se egli fosse la loro coscienza, e la loro coscienza come fosse il re, di cavalcare fuori dalla patria riparando gli umani torti, di non dire calunnia e di non prestarvi orecchio, di condurre dolce vita nella più pura castità, di amare soltanto una fanciulla e unirsi a lei, meritando il suo amore attraverso nobili imprese, fino a conquistarla. Perché io non conobbi sotto il cielo maestro più accorto di quanto sia il sentimento amoroso per una fanciulla, capace non soltanto di temperare nell’animo il suo orgoglio, ma d’insegnargli alti pensieri e amabili parole e cortesia e desiderio di gloria e amore per la verità, e tutto quello che fa di un uomo un uomo.